Le radici antropologiche del proibizionismo 
 
Giordano Meneghini 1995
 
In questo breve saggio propongo alcune idee sulla interpretazione del fenomeno droghe nel contesto occidentale seguendo un percorso di riflessione che si articola attraverso il pensiero di autori che si sono confrontati con questo complesso tema. La mia lettura di tali autori è forse a volte un po' forzata -e mi assumo in tal senso ogni responsabilità per l'eventuale travisamento dell'altrui pensiero- ma credo che il risultato di questo percorso porti comunque elementi di approfondimento attorno ai quali credo valga la pena di discutere.  
 
L'atto di assumere droga acquisisce nel nostro contesto socio-culturale un significato specifico, che non ha equivalenti in altre culture arcaiche o tradizionali. Alcuni autori sottolineano come questo sia intimamente legato alla nostra cultura positivista che, "laicizzando" il consumo delle sostanze psicoattive, ha sostanzialmente "svuotato" di senso le esperienze di alterazione della coscienza rendendole un solipsistico gioco irreale (Derrida 1993, Szasz 1991). Al contrario nelle società arcaiche e tradizionali il consumo di droga, ed in generale le pratiche di alterazione della coscienza, sono caratterizzate da forme di integrazione socioculturale che, da un lato, allontanano il rischio di tossicomania attraverso la ritualizzazione delle assunzioni e, dall'altro, rendono comprensibili e comunicabili le esperienze degli Stati di Coscienza Alterata (SCA) attraverso specifiche codificazioni mitico-religiose (Ongaro-Basaglia 1979, Perrin 1982, Harrison 1988). L'assunzione rituale di droghe in tali contesti si configura prevalentemente come pratica religiosa che consente all'uomo un avvicinamento alla dimensione del sacro. L'etnologo tedesco H. P. Duerr (1993) approfondisce tale prospettiva affermando che il significato degli SCA in società arcaiche e prescientifiche, aldilà del valore di comunione mistica con la divinità, è intimamente legato alla comprensione ed alla stessa definizione della natura umana. L'alterazione della coscienza, indotta dall'assunzione di droghe o da particolari tecniche corporee, consente all'uomo una fuoriuscita dall'univoca determinazione della realtà quotidiana e quindi un superamento di quei confini che delimitano la sua stessa esperienza all'interno della propria cultura. Gli SCA rappresentano una dimensione che, pur essendo parte integrante della natura umana, resta al di fuori dell'esperienza quotidiana della realtà. Duerr definisce tale dimensione come natura selvaggia, alludendo metaforicamente alla sua essenza caotica e disordinata, in contrapposizione ad una natura civilizzata che corrisponde ad un'esperienza della realtà mediata, e quindi ordinata, dalla cultura. L'esperienza degli SCA diventa in tale prospettiva un "atto conoscitivo", un possibile ampliamento della coscienza e della consapevolezza del sé attraverso una fuoriuscita rituale dalla grammatica logica e dall'esperienza della propria forma di vita. Un tipo di conoscenza rifiutata dal pensiero scientifico occidentale. "Per noi che apparteniamo al moderno processo di civilizzazione, e privilegiamo l'avere rispetto all'essere, questa esperienza della 'parte selvaggia' della nostra persona non è familiare. Le ideologie correnti della nostra epoca, come la psicoanalisi o il marxismo, mettono in rilievo il fatto che 'questo', ovvero ciò che è al di fuori della nostra esperienza quotidiana, è il noi stessi in senso profondo. Ma queste ideologie mostrano la tendenza a sottrarre il carattere di realtà effettiva all'altro lato di noi stessi, dimostrando che si tratta di una 'proiezione illusoria'" (Duerr 1993: 72). Perduto ogni significato mistico o qualsiasi valore conoscitivo gli SCA, nella nostra cultura, vengono relegati in una dimensione allucinatoria dell'esperienza individuale. Anche il concetto di droga muta radicalmente con l'avvento del pensiero scientifico, come dimostra molto efficacemente F. Ongaro Basaglia (1979) ricostruendo l'evolversi della contrapposizione farmaco/droga in rapporto ai processi di mutamento economico-sociale e culturale del capitalismo occidentale. Tralasciando gli aspetti più specificamente politici ed economici evidenziati dalla studiosa, vediamo come, nella sua opera, il concetto di droga risulta storicamente determinato dal profondo modificarsi dell'ideologia e dello sfondo immaginativo di produzione, distribuzione ed utilizzo delle sostanze stupefacenti. La contrapposizione tra farmaco e droga, categoria indistinta nelle società pre-scientifiche e pre-capitalistiche, risulta così il frutto di una rottura dell'equilibrio tra l'uomo ed il "mondo naturale", da cui entrambe le "sostanze" derivano. Farmaco e droga, sottolinea la Ongaro-Basaglia, agiscono, a differenti livelli, su di un medesimo piano di aspettative: il farmaco, da un lato, sul dolore fisiologico della malattia, la droga, dall'altro, sul dolore spirituale ed esistenziale che caratterizza l'esistenza umana. "Carpiti alla natura" come rimedi alla sofferenza, entrambi mantengono, nelle società tradizionali, la duplice connotazione di "sostanza con proprietà terapeutiche" e di "veleno che intossica". Il farmaco, il filtro, la pozione agiscono così coerentemente ad una specifica visione del mondo magico-religiosa, che definisce il rapporto fra l'uomo, la propria sofferenza, ed il rimedio. Con l'evoluzione del pensiero occidentale la scienza diventa mediatrice del rapporto uomo/natura, sottraendo definitivamente tanto il farmaco quanto la droga al "mondo magico". Nel processo di razionalizzazione, che riduce la descrizione del mondo ad una concatenazione di cause ed effetti, emerge la contraddizione fra questi due termini. L'idea di farmaco, nella nuova visione del mondo, passa "attraverso la creazione di un'immagine di salute e di benessere conseguente a ciò che il farmaco può produrre" (Ongaro-Basaglia 1979: 41) diventando "parte integrante dell'ideologia medica, come strumento di guarigione" (Ongaro-Basaglia 1979: 41). L'oggettivazione e la parcellizzazione dl corpo umano, la guarigione settoriale offerta dal farmaco, codificano un'immagine della salute antinomica rispetto a quella altrettanto preformata di malattia. L'individuo resta relegato ad un ruolo di recettore passivo dei rimedi non più derivati dalla natura, ma bensì dalla società che ne ha "razionalizzato" tanto la produzione e la distribuzione quanto l'ideologia e le modalità dell'assunzione. In un contesto che enfatizza il farmaco come espressione del bene assoluto, eliminando ideologicamente la connotazione negativa di veleno cui era originariamente associato, sarà allora possibile "trasferire sulla droga la negatività assoluta, con gli stessi processi per cui il farmaco (che è anche droga) diventa assolutamente positivo" (Ongaro-Basaglia 1979: 43). Il termine droga appare così una categoria storicamente, ma soprattutto ideologicamente, determinata, la cui neutralità descrittiva -in quanto termine che indica genericamente un gruppo di sostanze in grado di alterare i parametri percettivi ed immaginativi dell'essere umano- è, se non altro, dubbia. Riprendendo tali argomentazioni in una prospettiva socio-antropologica Crescenzo Fiore torna sul problema delle definizioni affermando che: "...bisogna insistere sul fatto che non esiste una definizione unica e condivisa da tutti di che cosa sia una droga. La definizione è in diretta relazione con il periodo storico, l'ambiente culturale, e i soggetti storici impegnati nello sforzo classificatorio. Generalmente si distinguono quattro ambiti di definizione - la definizione medica considera droga tutte quelle sostanze che introdotte nell'organismo ne modificano una o più funzioni; - le definizione farmacologica riserva il termine droga ad una categoria di sostanze, non importa se naturali o artificiali, che vengono definite psicotrope, le quali agiscono, modificandola, sulla attività mentale dell'uomo; - la definizione legale è incentrata sulla presunta dannosità e pericolosità sociale delle sostanze, e comunque nell'ambito legale si evidenzia in maniera macroscopica il condizionamento culturale; - la definizione comune non ha alcun riferimento specifico e si basa su una serie diverse e incontrollabili di informazioni e disinformazioni. I tratti specifici di tale definizione sono l'assuefazione e la pericolosità."(Fiore C. in AA.VV. 1994: 130) Una babele di definizioni in cui il termine droga appare come il frutto di molteplici rinegoziazioni di significato a differenti livelli e con esiti differenti. Un processo storico, sociale e culturale che intorno alla droga ed alle pratiche di alterazione della coscienza ha prodotto immagini instabili, diversificate, e a volte antinomiche, che rimandano a specifiche istanze sociali e culturali ed alle loro variazioni nel tempo. Se invece consideriamo la pluralità di immagini e significati evocati dal termine droga in una prospettiva sincronica volta all'analisi dell'attualità, vediamo come queste si articolano nel contesto delle relazioni sociali e della comunicazione fra le diverse componenti della nostra società evidenziando le differenti posizioni degli attori sociali. "In questo caso diventa importante capire la differenza che c'è fra il drogato e lo spacciatore, tra il drogato e la famiglia, tra il drogato e il poliziotto, e così di seguito. Si comprende bene che se un polo resta fisso -il drogato e la droga-, l'altro cambia, e con esso cambia l'immagine di riferimento. Bisogna prendere consapevolezza di questa pluralità di immagini altrimenti si corre il rischio di perdere di vista la complessità ed eterogenicità del fenomeno. Per questa ragione la definizione "cultura della droga" è praticamente priva di senso se non si esplicita in riferimento a chi si parla di cultura: il drogato, il magistrato, il giornalista, ecc." (Fiore C. in AA.VV. 1984: 135) Volendo ulteriormente approfondire il discorso sulle valenze ideologiche sottese al concetto di droga nella nostra cultura possiamo poi accennare, passando dalla storia delle idee ad una prospettiva filosofica "decostruttiva", agli spunti di riflessione offerti da J. Derrida in un pamphlet dal titolo: "Retorica della droga" (Derrida 1993). Derrida afferma : "la questione della droga [si definisce] come questione -la grande questione- della verità". E continua: "bisognerebbe certamente distinguere tra le droghe dette allucinogeni e le altre. Ma questa distinzione si elide nella retorica del fantasma che sostiene l'interdetto: la droga farebbe perdere il senso della realtà. É sempre in nome di quest'ultima che, mi sembra, in ultima istanza l'interdetto è pronunciato" (Derrida 1993: 25). Il filosofo francese individua una interdizione di natura morale, implicita al significato del concetto in questione, nella sua relazione oppositiva rispetto al concetto di realtà. Gli effetti della droga, ed il "piacere" che questa produce, sono dunque immorali poiché producono esperienze irreali, allucinatorie, ed inducono un distacco del soggetto dalla realtà stessa. Gli Stati di Coscienza Alterata diventano così il luogo in cui si evidenzia la problematicità di un approccio antropologico interpretativo. Difatti l'idea stessa di alterazione si definisce in contrapposizione ad un concetto di normalità (1) che, a sua volta, acquista senso solo all'interno del nostro specifico contesto culturale. Si delinea in tal senso una contraddizione interna all'idea di normalità nel pensiero occidentale che, sebbene definisca un paradigma di umanità attraverso parametri culturali, mantiene tuttavia la pretesa, etnocentrica, di una valutazione "oggettiva" (e negativa) dell'alterazione. Quest'ultima, indotta da un fattore esterno (la droga appunto), situa il soggetto assuntore al di fuori della determinazione spazio-temporale quotidiana e quindi "falsifica" il suo vissuto d'esperienza. In tale prospettiva l'assunzione di una droga diventa un atto insensato e deviante, benché piacevole, poiché finalizzato ad un allontanamento volontario dall'esperienza "reale" attribuita allo stato di normalità. Una irrisolvibile irrazionalità rende "altro da noi" il tossicomane. Una alterità fondata su di un arbitrario processo di astrazione/estrazione, dalla società reale, di una classe di individui in base ad un loro tratto peculiare: il consumo di droga (Ramognino 1988). Il segno droga (Perrin 1982) evidenzia dunque una sorta di divisione del campo sociale espressa dalla contrapposizione normalità/devianza. Una riflessione antropologica sul fenomeno della tossicomania dovrà tenere conto degli scenari simbolici e dei contesti cognitivi all'interno dei quali si configura l'esperienza del consumo di droga nella nostra società e nella nostra cultura individuando le specifiche sottoculture che codificano tali pratiche. Per questo una valutazione critica delle caratteristiche che informano ed istituzionalizzano la condizione di diversità dei soggetti tossicomani diventa precondizione necessaria ad una comprensione del fenomeno.  
 
1 Il concetto di normalità a cui faccio riferimento viene ripreso da G. Harrison che nel suo libro "Il culto della droga" (1988) lo definisce come "adattamento al mondo lavorativo in cui si vive, con gli atteggiamenti che si assumono per risolvere i problemi e per esaminare la realtà circostante" (p. 29)  
 
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