Droga narrazioni e stereotipi. 
Retorica dell'identità subordinata. 
 
Giordano Meneghini 1994
 
                                            
  Lui aveva osservato la sua personalità frammentarsi, staccarsi come grossi pezzi di iceberg, 
schegge galleggianti che andavano alla deriva, e alla fine aveva visto la cruda necessità, la 
famelica armatura della tossicodipendenza.  
                                                                 (William Gibson, Il neuromante) 
 
01. Premessa 
 
Quanto segue rappresenta parte delle riflessioni e dei risultati emersi da uno studio sul fenomeno tossicodipendenza ad Abbadia San Salvatore, un piccolo paese montano -settemila abitanti circa- situato nell'area amiatina della provincia senese. L'intero lavoro ruota attorno alla definizione di alcune ipotesi interpretative inerenti ai processi di costruzione e rappresentazione della propria identità da parte di soggetti tossicodipendenti. Analizzando un gruppo di interviste biografiche si è cercato dunque di ricostruire le strategie retoriche di descrizione del sé e le modalità di autoattribuzione di identità che emergono dai differenti contesti narrativi di racconto dell'esperienza tossicomania.  
Nelle conversazioni è stato domandato ai soggetti di ricostruire l'evoluzione del proprio percorso di vita in relazione al consumo di sostanze psicotrope ed alle persone -gruppo di pari, amici intimi, partner ecc.- che hanno condiviso con loro l'esperienza droga. Il corpus di documentazione prodotto è composto da un totale di venticinque interviste, registrate e trascritte, di un campione rappresentativo della popolazione locale di tossicodipendenti. La scelta dei soggetti intervistati è basata su di un'elaborazione dei dati presenti nell'archivio del servizio SERT (U.S.L. 32) che ha consentito uno sguardo complessivo sulle dimensioni e la morfologia del fenomeno. I criteri di rappresentatività adottati nella composizione del campione tengono conto delle differenze generazionali, sessuali, di condizione socioeconomica e di livello di istruzione presentate dall'insieme dei soggetti entrati in contatto con la struttura pubblica. 
Dopo una breve presentazione degli intenti conoscitivi, la trattazione si sviluppa nel tentativo di delineare un possibile approccio antropologico al fenomeno droga. In tale ottica deve essere considerata la mia opinabile interpretazione del pensiero di alcuni autori che si sono occupati dell'argomento, volta a definire la cornice teorica e le problematiche che fanno da sfondo all'intera ricerca. 
Il secondo momento della riflessione vuole invece costituire una sorta di interfaccia fra le questioni teoriche accennate ed i risultati del lavoro sul campo che seguiranno. Verranno proposte in tale ambito alcune considerazioni di ordine etico inerenti al rapporto con i soggetti intervistati e le loro possibili ricadute, in ambito conoscitivo, nella produzione e nella interpretazione dei documenti biografici. 
Il testo si conclude infine con l'analisi delle strategie retoriche di rappresentazione del sé attuate dai soggetti nel racconto della loro esperienza di tossicodipendenza. 
 
02. Terreni periferici: la ricerca, il metodo. 
 
La scelta di Abbadia San Salvatore come terreno di indagine risponde ad alcune opzioni teorico-metodologiche preliminari che tenterò brevemente di sintetizzare. Da un lato la possibilità di circoscrivere il fenomeno all'interno di una comunità ha infatti consentito di ricreare le condizioni per una indagine etnografica. D'altro canto trattandosi di un fenomeno di massa, la cui diffusione interessa tutte le società occidentali, rimane il presupposto, pur sempre da convalidare, di una possibile generalizzazione di alcuni degli aspetti del fenomeno in questione rilevati a livello locale. 
In quest'ottica l'intera ricerca può essere considerata come un tentativo di verifica della stessa possibilità di un'antropologia della contemporaneità che "ha forse nelle periferie un terreno d'elezione, perché vi trova concentrati i caratteri della civiltà d'oggi che altrove è più difficile riconoscere" (Clemente 1990: 32). 
L'idea di trovarsi ad un "crocevia privilegiato" guida quindi la scommessa di rilevare, nella dimensione ridotta di una cittadina di provincia, caratteristiche generalizzabili rispetto ad un fenomeno la cui diffusione trascende i confini degli stati e delle differenze culturali, innestandosi in quel processo di mutamento economico, sociale e culturale che coincide con l'espansione del modello occidentale. 
La comunità di Abbadia S. Salvatore può in tal senso rappresentare un luogo ideale per un'indagine qualitativa sulle tossicodipendenze. Difatti le caratteristiche del fenomeno in questa località appaiono sostanzialmente in sintonia con l'andamento nazionale. (nota 1) 
Muoversi in un contesto spazialmente e demograficamente delimitato ha dunque consentito una visione d'insieme (dei gruppi di consumo, dei rapporti generazionali, del rapporto dei singoli con la comunità e con le istituzioni ecc.) che risulterebbe impossibile nella frammentazione di un ambiente metropolitano. 
 
[nota 1: L'eroina comincia a circolare ad Abbadia S. Salvatore verso la fine degli anni settanta raggiungendo la sua massima diffusione negli anni ottanta. Negli ultimi tempi, dagli inizi del novanta, il consumo di questa sostanza sembra cedere il passo nei confronti altre droghe quali cocaina, exstasy ed altri allucinogeni, sempre più presenti sul mercato illegale. ] 
 
02. L'alterità del noi (per una prospettiva antropologica). 
 
L'atto di assumere droga acquisisce nel nostro contesto socio-culturale un significato specifico, che non ha equivalenti in altre culture arcaiche o tradizionali. Alcuni autori sottolineano come questo sia intimamente legato alla nostra cultura positivista che, "laicizzando" il consumo delle sostanze psicoattive, ha sostanzialmente "svuotato" di senso le esperienze di alterazione della coscienza rendendole un solipsistico gioco irreale (Derrida 1993). Al contrario nelle società arcaiche e tradizionali il consumo di droga è caratterizzato da forme di integrazione socioculturale che, da un lato, allontanano il rischio di tossicomania attraverso la ritualizzazione delle assunzioni e, dall'altro, rendono comprensibili e comunicabili le esperienze degli Stati di Coscienza Alterata (SCA) attraverso specifiche codificazioni mitico-religiose (Harrison 1988; Perrin 1982). L'assunzione rituale di droghe in tali contesti si configura prevalentemente come pratica religiosa che consente all'uomo un avvicinamento alla dimensione del sacro. Tuttavia, secondo le ipotesi formulate dell'etnologo tedesco H. P. Duerr (1993), il significato degli SCA in società arcaiche e prescientifiche, aldilà del valore di comunione mistica con la divinità, è intimamente legato alla comprensione ed alla stessa definizione della natura umana. L'alterazione della coscienza, indotta dall'assunzione di droghe o da particolari tecniche corporee, consente all'uomo una fuoriuscita dall'univoca determinazione della realtà quotidiana e quindi un superamento di quei confini che delimitano la sua stessa esperienza all'interno della propria cultura. Gli SCA, in tale prospettiva, rappresentano una dimensione che, pur essendo parte integrante della natura umana, resta al di fuori dell'esperienza quotidiana della realtà. Duerr definisce tale dimen 
sione come natura selvaggia, alludendo metaforicamente alla sua essenza caotica e disordinata, in contrapposizione ad una natura civilizzata che corrisponde ad un'esperienza della realtà mediata, e quindi ordinata, dalla cultura. L'esperienza degli SCA diventa in tale prospettiva un "atto conoscitivo", un possibile ampliamento della coscienza e della consapevolezza del sé attraverso una fuoriuscita rituale dalla grammatica logica e dall'esperienza della propria forma di vita. Un tipo di conoscenza rifiutata dal pensiero scientifico occidentale. 
"Per noi che apparteniamo al moderno processo di civilizzazione, e privilegiamo l'avere rispetto all'essere, questa esperienza della parte «selvaggia»della nostra persona non è familiare. Le ideologie correnti della nostra epoca, come la psicoanalisi o il marxismo, mettono in rilievo il fatto che «questo» ovvero ciò che è al di fuori della nostra esperienza quotidiana, è il «noi stessi» in senso profondo. Ma queste ideologie mostrano la tendenza a sottrarre il carattere di realtà effettiva all'«altro lato di noi stessi» dimostrando che si tratta di una «proiezione illusoria»." (Duerr 1993: 72).Perduto ogni significato mistico o qualsiasi valore conoscitivo gli SCA, nella nostra cultura, vengono relegati in una dimensione allucinatoria dell'esperienza individuale. 
Anche il concetto di droga muta radicalmente con l'avvento del pensiero scientifico, come mostra F. Ongaro Basaglia (1979) ricostruendo l'evolversi della contrapposizione farmaco/droga in rapporto ai processi di mutamento economico-sociale e culturale del capitalismo occidentale. Tralasciando gli aspetti più specificamente politico-economici evidenziati dalla studiosa, vediamo come, nella sua opera, il concetto di droga risulta storicamente determinato dal profondo modificarsi dell'ideologia e dello sfondo immaginativo di produzione, distribuzione ed utilizzo delle sostanze stupefacenti. 
La contrapposizione tra farmaco e droga, categoria indistinta nelle società pre-scientifiche e pre-capitalistiche, risulta così il frutto di una rottura dell'equilibrio tra l'uomo ed il "mondo naturale", da cui entrambe le "sostanze" derivano. 
Farmaco e droga, sottolinea la Ongaro-Basaglia, agiscono, a differenti livelli, su di un medesimo piano di aspettative: il farmaco, da un lato, sul dolore fisiologico della malattia, la droga, dall'altro, sul dolore spirituale ed esistenziale che caratterizza l'esistenza umana. "Carpiti alla natura" come rimedi alla sofferenza, entrambi mantengono, nelle società tradizionali, la duplice connotazione di "sostanza con proprietà terapeutiche" e di "veleno che intossica". Il farmaco, il filtro, la pozione agiscono così coerentemente ad una specifica visione del mondo magico-religiosa, che definisce il rapporto fra l'uomo, la propria sofferenza, ed il rimedio. 
Con l'evoluzione del pensiero occidentale la scienza diventa mediatrice del rapporto uomo/natura, sottraendo definitivamente tanto il farmaco quanto la droga al "mondo magico". Nel processo di razionalizzazione, che riduce la descrizione del mondo ad una concatenazione di cause ed effetti, emerge la contraddizione fra questi due termini. L'idea di farmaco, nella nuova visione del mondo, passa "attraverso la creazione di un'immagine di salute e di benessere conseguente a ciò che il farmaco può produrre" (Ongaro-Basaglia 1979: 41) diventando "parte integrante dell'ideologia medica, come strumento di guarigione" (Ongaro-Basaglia 1979: 41). L'oggettivazione e la parcellizzazione dl corpo umano, la guarigione settoriale offerta dal farmaco, codificano un'immagine della salute antinomica rispetto a quella altrettanto preformata di malattia. L'individuo resta relegato ad un ruolo di recettore passivo dei rimedi non più derivati dalla natura, ma bensì dalla società che ne ha "razionalizzato" tanto la produzione e la distribuzione quanto l'ideologia e le modalità dell'assunzione. 
In un contesto che enfatizza il farmaco come espressione del bene assoluto, eliminando ideologicamente la connotazione negativa di veleno cui era originariamente associato, sarà allora possibile "trasferire sulla droga la negatività assoluta, con gli stessi processi per cui il farmaco (che è anche droga) diventa assolutamente positivo" (Ongaro-Basaglia 1979: 43). 
Il termine droga appare così una categoria storicamente, ma soprattutto ideologicamente, determinata, la cui neutralità descrittiva -in quanto termine che indica genericamente un gruppo di sostanze in grado di alterare i parametri percettivi ed immaginativi dell'essere umano- è, se non altro, dubbia. 
Volendo ulteriormente approfondire il discorso sulle valenze ideologiche sottese al concetto di droga nella nostra cultura possiamo poi accennare, passando dalla storia delle idee ad una prospettiva filosofica "decostruttiva", agli spunti di riflessione offerti da J. Derrida in un pamphlet recentemente edito in Italia: "Retorica della droga" (1993). 
Derrida afferma : "la questione della droga [si definisce] come questione -la grande questione- della verità". E continua: "bisognerebbe certamente distinguere tra le droghe dette allucinogeni e le altre. Ma questa distinzione si elide nella retorica del fantasma che sostiene l'interdetto: la droga farebbe perdere il senso della realtà. É sempre in nome di quest'ultima che, mi sembra, in ultima istanza l'interdetto è pronunciato" (Derrida 1993: 25). 
Il filosofo francese individua una interdizione di natura morale, implicita al significato del concetto in questione, nella sua relazione oppositiva rispetto al concetto di realtà. Gli effetti della droga, ed il "piacere" che questa produce, sono dunque immorali poiché producono esperienze irreali, allucinatorie, ed inducono un distacco del soggetto dalla realtà stessa. 
Gli Stati di Coscienza Alterata diventano così il luogo in cui si evidenzia la problematicità di un approccio antropologico interpretativo. Difatti l'idea stessa di alterazione si definisce in contrapposizione ad un concetto di normalità [nota 2] che, a sua volta, acquista senso solo all'interno del nostro specifico contesto culturale. Si delinea in tal senso una contraddizione interna all'idea di normalità nel pensiero occidentale che, sebbene definisca un paradigma di umanità attraverso parametri culturali, mantiene tuttavia la pretesa, etnocentrica, di una valutazione "oggettiva" (e negativa) dell'alterazione. Quest'ultima, indotta da un fattore esterno (la droga appunto), situa il soggetto assuntore al di fuori della determinazione spazio-temporale quotidiana e quindi "falsifica" il suo vissuto d'esperienza. L'assunzione di una droga, in tale prospettiva, diventa un atto insensato, deviante, poiché finalizzato ad un allontanamento volontario dall'esperienza "reale" dello stato di normalità. 
Una irrisolvibile irrazionalità rende "altro da noi" il tossicomane. Una alterità fondata su di un arbitrario processo di astrazione/estrazione, dalla società reale, di una classe di individui in base ad un loro tratto peculiare: il consumo di droga (Ramognino 1988). Il segno droga (Perrin 1982) evidenzia dunque una sorta di divisione del campo sociale espressa dalla contrapposizione normalità/devianza. 
Una riflessione antropologica sul fenomeno della tossicomania dovrà tenere conto degli scenari simbolici e dei contesti cognitivi all'interno dei quali si configura l'esperienza della tossicodipendenza nella nostra società e nella nostra cultura. Per questo una valutazione critica delle caratteristiche che codificano, informano ed istituzionalizzano la condizione di diversità dei soggetti tossicodipendenti diventa precondizione necessaria ad una etnografia del fenomeno. Tanto più se, come nel caso della ricerca da me svolta, si focalizza l'attenzione sui processi di costruzione ed autoattribuzione di identità in rapporto ad uno stile di vita centrato sull'assunzione di eroina. 
 
nota 2: Il concetto di normalità a cui faccio riferimento viene ripreso da G. Harrison che nel suo libro "Il culto della droga" (1988) lo definisce come "adattamento al mondo lavorativo in cui si vive, con gli atteggiamenti che si assumono per risolvere i problemi e per esaminare la realtà circostante" (p. 29)  
 
03. La questione morale e le soluzioni retoriche 
 
Alla luce di quanto detto finora risulteranno forse più chiare alcune problematiche di ordine morale, e la ricaduta di queste in ambito conoscitivo ed interpretativo, emerse durante la produzione e la trattazione analitica dei documenti biografici. 
L'intervista biografica fa parte di una metodologia ormai consolidata nelle scienze sociali. Tuttavia nell'ambito specifico di una ricerca con soggetti etichettati socialmente come devianti bisognerà, a mio avviso, specificare alcuni tratti caratteristici del materiale prodotto.  
Sono partito quindi dal presupposto che la proposta biografica rappresenta di per sé un'occasione di ridefinizione della propria identità attraverso la narrazione (Clemente 1986). Tuttavia, nel nostro caso, si amplifica notevolmente il problema del confrontarsi con un una serie di rappresentazioni in cui gli "elementi di creatività e soggettività" (Clemente 1986) presenti in qualsiasi materiale biografico, sono in qualche modo istituzionalizzati dallo stile di vita dei soggetti in questione. Mentire, rappresentarsi, giustificarsi, dissimulare ("ora sono tranquillo" ecc.), fanno parte dell'esperienza quotidiana del tossicodipendente nel suo rapportarsi con il resto della società: con i genitori, il datore di lavoro, la polizia, gli amici, gli operatori terapeutici ecc. 
Dovranno allora essere valutate le finalità implicite a tale ridefinizione del sé in base alle valenze negative che lo status di tossicodipendente comporta. Il confronto imposto dalla situazione di intervista pone intervistatore ed intervistato su due piani opposti. Il primo rivestirà, in un certo senso, il ruolo di rappresentante di quella normatività collettiva che, avendo decretato lo status di deviante al secondo, lo interroga sulle motivazioni della sua diversità. Il soggetto intervistato interpreterà, oscillando tra consapevolezza ed inconsapevolezza, il ruolo di deviante cercando di legittimare il proprio status. In tale prospettiva l'irrazionalità del comportamento tossicomanico e l'irrealtà "perversa" attribuita all'esperienza drogastica costituiscono il contesto significativo all'interno del quale il dialogo si svolge. Per questo, a mio avviso, dovremo interpretare i racconti autobiografici come manipolazioni retoriche finalizzate, da parte dell'intervistato, ad una legittimazione del proprio "essere nel mondo", nel "mondo normale" che inizialmente appartiene solo all'esperienza dell'intervistatore. In tal senso il dialogo sarà caratterizzato da una sorta di negoziazione continua sui significati dell'esperienza raccontata attraverso la quale viene in un certo senso "contrattata" l'alterità attribuita al tossicodipendente. 
Attraverso l'analisi delle interviste si tratterà dunque di far emergere le strategie retoriche e descrittive, utilizzate dai soggetti, utilizzandole come chiave d'accesso a specifici modi di vivere e pensare il ruolo di tossicodipendente nella nostra cultura. Il meccanismo principale di tali strategie sembra essere quello di una giustapposizione di verità -frammenti di vissuto e di emozioni, rimandi all'indicibile, generalizzazioni ecc.- decontestualizzate rispetto al vissuto d'esperienza ed inserite in una cornice in grado di renderle teleologicamente significative: la proposta biografica del ricercatore. In tal senso le contraddizioni perdono il loro valore di finzione o menzogna poiché direttamente collegate al fine implicito di giustificazione, di compresenza in un medesimo universo in cui la verità è quella tangibile ed in cui l'effetto della droga e la dipendenza, per quanto "realmente esperite", rimangono allucinazioni o perversioni individuali. 
Il confronto, imposto dall'intervista biografica, si configura allora come una negoziazione di significati in una continua oscillazione fra menzogne e verità limitate (Clifford 1993) in cui sono, con differente consapevolezza, implicati entrambi i soggetti. 
 
04. Identità e stereotipo 
 
I soggetti intervistati hanno, come caratteristica comune, quella di essersi riconosciuti, o di riconoscersi tuttora, nello status di tossicodipendente. Per alcuni il problema della dipendenza psicologica e fisiologica si situa nel passato ma per la maggior parte il rapporto con la sostanza, e mi riferisco qui all'eroina, è ancora fortemente conflittuale. L'accettazione dell'etichetta sociale di tossicodipendente comporta dei processi di identificazione specifici e sicuramente non omogenei. Per questo il mio interesse si è concentrato proprio sul significato che tale categoria assume nel racconto autobiografico. Adottando una prospettiva diacronica ho inoltre tentato di evidenziare come il modo di rapportarsi verso gli stereotipi del "drogato" e del "tossicomane" si siano progressivamente modificati. 
Attualmente l'accettazione dello status di tossicodipendente è implicita alla richiesta di presa in carico rivolta all'istituzione pubblica. Analizzando le motivazioni che spingono i singoli soggetti a rivolgersi al SERT vediamo infatti che, soprattutto per i più giovani, l'arrivo al centro è conseguente ad una "sconfitta" della propria personalità che li costringe ad ammettere la dipendenza (un collasso, un overdose, la pressione di genitori o parenti per i quali la situazione è diventata insostenibile, l'impossibilità economica di sostenere il proprio fabbisogno giornaliero ecc.). 
Viceversa per i più vecchi, i cosiddetti "tossici storici" la cui esperienza inizia verso la fine degli anni '70, l'avvicinamento al centro SERT -aperto nel 1980, anno in cui si è registrato un afflusso "in massa"- risulta motivata principalmente dalla facilità con cui si potevano ottenere sostitutivi, ricette e, più o meno fino al 1985, anche morfina. 
"...all'inizio era un frequentà il centro perché era una cosa abbastanza permissiva cioè davano anche la morfina grossi dosaggi o che, e diventava un modo di procurassi praticamente la robba senza spende soldi e in maniera tranquilla cioè facevi l'uno e l'altro capito? Cioè al limite andavi al centro pigliavi la morfina e poi magari ti ritrovavi anche i soldi per comprà l'eroina, oppure c'era... c'era [...] cambià magari fiale che ti davano al centro con dosi di eroina eccetra eccetra" (IIa-'57-M) 
"...quando appunto capitava che si doveva andare via, ma a volte anche pe' scusa, te la davano per quindici giorni, uscivi fori colla busta della coppe, l'hai presente la busta della coop piena di fiale di morfina e di eptadone sicché t'immagini se ti doveva durà quindici giorni quella terapia in tre giorni te la spaluginavi.. te la facevi.. ecco dopo tre giorni riandavi lì e.. e l'avevi in mano questa ro.. e quindi te la ridavano, senonché poi dopo si fecero più rigidi insomma però c'hanno fatto tossici l'usle.. ecco un anno.. secondo me se non c'era non creava tutto questo..." (VIII-'58-F) 
L'accettazione del ruolo di "drogato" per questi soggetti era opportunistica: io mi dichiaro "tossico" e loro (lo stato, l'USL ecc.) mi danno la "roba". Tuttavia l'estrema facilità con cui si ricorreva al centro, anche senza veri problemi di dipendenza, evidenzia anche la differente significazione attribuita dai soggetti allo status di tossicodipendente. Questo conservava, a mio avviso, un valore di contestazione ideologica e di contrapposizione esplicita alla società e alla cultura dominante. 
"non m'è mai piaciuto mimetizzarmi volevo sempre emergere, fammi vedere, cioè che la gente pensasse che ero tossica anzi mi faceva piacere pensa quant'ero stupida" (VII-'61-F) 
"capelli lunghi si so' port.. s'è cominciato a portarli in quattro o cinque andando incontro a tutte le cose che ci potevano esse di quel periodo tipo additamenti capito capello lungo uguale drogato anche se magari non era capito? Però andavi andavi incontro insomma all'opinione pubblica quindi al fatto che magari... che ne so una ragazza usciva co' te e i genitori la segregavano 'n casa perché te capellone.. strappato jeans hippi eccetra eccetra quindi... però ecco ti ripeto c'erano delle persone delle ragazze e dei ragazzi che magari erano simpatizzanti verso queste cose però avevano questa paura"(IIb-'57-M) 
L'ostentazione della propria diversità, in contrapposizione ai "perbenisti", assume per questi soggetti un valore positivo. In tal senso il dichiararsi tossicodipendente, anche se finalizzato ad ottenere droga, rientra in un atteggiamento di contrapposizione esplicita al "sistema". 
Un valore che progressivamente si perderà con gli anni ottanta. 
Tossicodipendente diventerà sempre più sinonimo di emarginato e, per i più giovani, accettare di esserlo è piuttosto uno scacco della propria forza di volontà, della propria capacità di "dominare" la "roba", che non un merito da ostentare. L'esperienza eroina diventa sempre più un "gioco rischioso" che, se pure acquista senso all'interno del gruppo di consumo, non ha un esplicito e codificato valore "sociale" positivo. 
Tale mutamento appare evidente, ad esempio, nei riferimenti "letterari" proposti da VII-'61-F, che per "formazione culturale" appartiene al primo nucleo di assuntori di Abbadia, e di I-'70-F, la cui esperienza di tossicodipendenza, seppur breve, si situa nella seconda metà degli anni ottanta: 
"...si perché all'inizio c'è sempre tanta paura no? Di non conosco la materia e allora niente ho voluto documentarmi sui tipi di effetto cioè volevo sapé a che cosa andavo incontro chiaramente, non è che mi so' messa una benda sugli occhi e mi ci so' buttata, ho letto dei testi medici, dei racconti scritti tipo "flash, viaggio a Katmandu", esperienze di persone che avevano già fatto questi viaggi, questi tipi di vita, e ero sempre più fortemente attratta, più fortemente affascinata fino a che mi so' decisa..." (VII-'61-F) 
"R. ...A me una cosa che probabilmente mi ha rovinato è stato Cristiana F., non lo so se l'hai mai letto il libro? 
I. Si 
R. Secondo me è un libro che non è che ti fa odià la droga, anzi ti ci porta dentro. O per lo meno se lo leggi all'età che l'ho letta io, proprio è stata... 
I. Cioè a che età l'hai letto? 
R. A tredicianni. M'ha aperto proprio le porte alla droga..." (I-'70-F) 
Entrambi i libri "conducono" verso un mondo specifico e implicitamente descrivono una sensibilità che si manifesta anche attraverso il racconto autobiografico. La letteratura "di riferimento" diventa, in tale prospettiva, connotativa del differente atteggiamento verso l'esperienza drogastica. 
In VII-'61-F lo "stimolo" letterario evidenzia come l'esperienza droga assume una valenza conoscitiva ed esperienziale che rimanda direttamente all'esotismo, alla fuoriuscita dagli schemi sociali e ad una nuova consapevolezza del sé. La cultura hippie, pur in versione banalizzante e massificata, informava l'immaginario della droga rendendola un'esperienza "positiva" che permetteva di "essere parte attiva" di un mutamento culturale in corso. 
I-'70-F significativamente rende "galeotto" un libro in cui l'esperienza drogastica viene descritta come squallida, alienante ed insensata. Il film "Cristiana F. Noi, ragazzi dello zoo di Berlino" evidenzia, forse più del libro da cui è tratto, come una differente "iconografia" del drogato sia complementare ad un'estetica emergente "negativa" e sotterranea. Lo scenario metropolitano, la depravazione e l'alienazione sullo sfondo anonimo di una stazione -luogo in cui i giovani tossicodipendenti vanno a prostituirsi- che diventa un eterogeneo zoo di perversioni, violenze e disperazione solitaria. Tutti questi elementi configurano una diversa percezione estetica ed ideologica di un mondo a cui non resta da opporre che un rifiuto "esistenziale" una volta esaurite le speranze di trasformazione collettiva. Mondo in cui la droga assume un'importanza sempre maggiore come elemento espressivo di un malessere generalizzato a cui si cerca di sfuggire individualmente. 
É impossibile valutare quanto fattori estetici, improntati su di un nichilismo di maniera, abbiano realmente influito sui comportamenti dei singoli individui, tanto più in un contesto periferico dove necessariamente certi malesseri "metropolitani" appaiono attenuati o, più semplicemente, fuori luogo. Tuttavia possiamo sicuramente affermare un cambiamento nel significato dell'esperienza droga e dell'essere drogati. 
La progressiva strutturazione del significato di tossicodipendenza -inizialmente fluttuante fra contestazione ideologica e perversione collettiva poi stabilizzatosi in malattia psico-sociale- si concretizza in una diversa modalità di percepire ed attuare l'esperienza drogastica. Schematicamente potremmo dire che si passa da un'identificazione "positiva" ad una "negativa".  
Nel primo caso la "perdizione" della droga è conseguente ad una perdita progressiva della propria consapevolezza. Nel secondo la "perdizione" è già implicita nell'avvicinamento all'eroina assumendo le caratteristiche di una "maledizione" il cui potere evocativo trascende le motivazioni estetico/ideologiche delle generazioni precedenti. Il soggetto "maledetto" è al di fuori di qualsiasi contestazione, al di sopra della cruda materialità, indifferente alla morale è, in altre parole, fuori dalla cultura. 
La maledizione del tossicodipendente presuppone infatti un sostanziale autocentrismo (si è maledetti, e quindi indifferenti a tutto il resto, da soli). Al contrario il ricorso ad una struttura pubblica comporta, paradossalmente, una sconfessione della maledizione stessa poiché non più "autosufficiente". Chiedere aiuto, cercare di smettere, significa dimostrarsi incapaci a sostenere il proprio ruolo. In questo senso l'arrivo al centro comporta una sorta di mutamento nella percezione del sé. Significativamente il riscatto individuale a tale mutamento viene spesso espresso nella strumentalità del rapporto instaurato con gli operatori, volto a massimizzare le quantità di metadone ottenuto e minimizzare il coinvolgimento terapeutico. Tuttavia ad un livello di restituzione autobiografica del sé questo passaggio, da "maledetto" di strada a "tossico" istituzionalizzato, è chiaramente percepibile. Infatti l'istituzionalizzazione della propria dipendenza se da un lato comporta l'accettazione dello status di tossicodipendente, dall'altro situa il soggetto in una diversa dimensione simbolica ed istituzionale che gli presuppone "il desiderio di smettere". Quest'ultimo presupposto, implicito nella richiesta di presa in carico, influenza notevolmente il racconto autobiografico (che svolgendosi all'interno del SERT viene spesso percepito come "dalla parte della terapia"). Infatti l'accettazione a parlare di sé proietta necessariamente nel passato l'identificazione con il ruolo specifico di tossicodipendente e nel presente il nuovo atteggiamento verso di questo. Tale atteggiamento, se escludiamo i più anziani e disillusi (per i quali l'identificazione nello status di "tossico" è diventata una necessità), può essere in linea di massima generalizzato. Lo stereotipo del tossicodipendente può dunque essere giocato in maniera ambivalente: 
- Chi dispera in una disintossicazione definitiva, o la considera una eventualità remota, tenderà a descrivere un modello fortemente negativo, di decadenza morale ed affettiva, per potersene distaccare attraverso esempi concreti del proprio vissuto: "io a questi livelli non ci sono mai arrivato..." 
- Viceversa chi sta provando a smettere attuerà la medesima strategia -di differenziazione dallo stereotipo negativo- come dimostrazione, a priori, che non si è mai stati dei "veri" tossicodipendenti e che, quindi, si riuscirà a disintossicarsi. 
Bisogna infine notare che tali strategie retoriche sono limitate a contesti specifici all'interno del racconto e, sebbene poste come paradigmatiche all'organizzazione del discorso, tendono spesso a dissolversi nelle contraddizioni che emergono durante la narrazione. Quindi se la strategia esplicita consiste in una separazione delle identità (io-tossico/vero-io) la sua attuazione si risolve in un io fluttuante fra identificazione e distinzione. 
La consapevolezza di tale fluttuazione è a volte chiara e viene principalmente giustificata attraverso il concetto di "dipendenza". 
"...ti posso di' tutta 'na serie di bellissime cose magari ora che sto bene capito? Fra du' ore che so' 'n crisi d'astinenza ti dico tutto l'opposto pe' di'..." (VII-'61-F) 
La ragazza che parla ha alle spalle quindici anni di tossicodipendenza e molti tentativi falliti di disintossicazione. Al momento dell'intervista aveva da poco iniziato a scalare la quantità delle assunzioni giornaliere integrandole con il metadone. Il racconto risente quindi probabilmente della condizione di forte conflittualità interiore in cui la ragazza si trovava in quel periodo (dopo pochi mesi decise infatti di entrare in comunità). Ciò ha probabilmente amplificato la percezione della instabilità che frustrava il suo desiderio di cambiamento. Tuttavia il frammento mostra abbastanza chiaramente come la dipendenza, i suoi tempi, le sue modalità di manifestazione "determinano" il vissuto e gli stati di coscienza, i comportamenti, gli atteggiamenti e le finalità del soggetto. La contraddittorietà implicita a tale condizione viene interpretata e descritta, dal soggetto stesso, come una costante, e prevedibile, modificazione della propria identità, del proprio io, in funzione del "bisogno" di droga. Il principio di verità, subordinato allo stato di coscienza, viene dunque delegittimato non tanto dall'irrealtà dell'esperienza allucinatoria provocata dall'intossicazione, quanto dall'aleatorità della propria identità sottoposta ad una continua modificazione. In tal senso il paradosso "si è drogati quando la droga viene a mancare" esemplifica perfettamente la percezione e la rappresentazione del proprio io in uno stato di dipendenza. 
 
Vediamo ora come lo status di tossicodipendente viene descritto cercando di isolare i tratti comuni che lo caratterizzano: 
"...il tossicodipendente in se stesso sia una persona che... proprio per la roba, per quello che la roba ti fa... ti fa trovà tutte le scuse possibili immaginabili, ti fa, sotto certi punti di vista, diventà... intrigante forse la parola giusta è intrigante..." (IIa-'57-M) 
"...cioè il tossico tossico non gliene frega niente, ruba 'n casa, venderebbe anche la mamma cioè non gli interessa capito? Si prostituisce le fa nere e io non ce l'ho questo tipo di coraggio cioè preferisco sta' male, sta' in crisi d'astinenza se non ho i soldi però il mi' carattere non me lo consente ne di tirà una sola a una persona ne di fagli del male ne di andammi a prostituì..." (VII-'61-F) 
In quest'ultimo esempio si può chiaramente notare come la funzione strategica della "identificazione fino ad un certo punto" viene giocata in contrapposizione ad uno stereotipo di natura morale. Tale stereotipo, come già anticipato, evidenzia infatti come lo status di tossicodipendente presupponga un superamento dei limiti morali imposti dalla nostra cultura. Il divenire "intrigante" descritto da II-'57-M esemplifica ancora di più la possibilità di manipolazione simbolica che il ruolo del "tossico" consente. La dipendenza, in tale prospettiva, pone il soggetto "al di fuori" della cultura. L'irrazionalità e l'irrealtà attribuite all'esperienza drogastica vengono, attraverso la dipendenza, giocate in maniera paradossale e, ancora una volta, opportunistica. Le possibilità di manipolazione simbolica diventano quindi illimitate: il ruolo si caratterizza sul piano morale per l'incoerenza (derivata dal principio di subordinazione della propria identità alla dipendenza), per l'opportunismo come effetto specifico di un "famelico" bisogno da soddisfare in ogni modo e dal nichilismo implicito nel gioco esponenziale della propria vita (tutto e subito). 
"...il tossicodipendente cioè inventa qualsiasi scusa, qualsiasi... qualsiasi stronzata la trova capito, pe' fregatti che poi cioè, frega te però nello stesso tempo si frega da solo..." (IIa-'57-M) 
 
L'io tossico si contrappone al vero io senza possibile soluzione di continuità: l'uno paradossalmente esclude l'altro. L'io parlante corrisponde ad una identità interna alla cultura mentre l'io posseduto dalla droga osserva, dall'esterno, sorridendo ironicamente alle "verità" esposte dal primo. 
La dipendenza diventa una identità a sé: chi è "a rota" sperimenta la possibilità "concettuale ed empirica" di essere al di fuori della morale. Il dover sottostare ad un unico imperativo -il bisogno di eroina- consente un generalizzato rapporto strumentale con "le cose del mondo" (persone, cose, valori, relazioni sociali ed affettive ecc.). 
La dipendenza tuttavia non rende liberi (sarebbe del resto contraddittorio o, perlomeno, ossimorico). Il soggetto è infatti "al di sopra della morale" solo in funzione della propria subordinazione all'eroina. Dunque l'esperienza della tossicodipendenza viene vissuta come una schiavitù che "comporta" un superamento della morale (che non ha perciò alcun significato liberatorio ma è piuttosto una costrizione a cui si è sottoposti). 
Una percezione ormai generalizzata di ciò ha, a mio avviso, contribuito all'evolversi della figura del tossicodipendente che ha progressivamente perso quell'aurea di "affascinante maledizione" che l'aveva caratterizzata in passato. I soggetti più giovani descrivono infatti la propria esperienza da una parte enfatizzando il fatalismo della perdita di consapevolezza che ha condotto alla dipendenza e, dall'altra, mostrando come anche il ruolo di tossicodipendente può essere interpretato, vissuto, senza rimanerne invischiati "per tutta la vita". 
 
Sono particolarmente esemplificative, a tale proposito, le affermazioni di XI-'69-F e di X-'66-F (amica intima di XI-'69-F): 
"...cioè sinceramente anche quando mi facevo cioè non mi so' mai vista in pericolo nel senso cioè rimarrò tutta la vita tossica perché, cioè magari è una presunzione, una cazzata voglio di' perché... cioè però propio non.. no lo so' non era propio la vita che faceva per me cioè nel se... [...] una delle cose che m'ha dato più noia.. che mi dava più noia è questa cioè non avecci propio la libertà di fa' assolutamente niente, perché se devi partì pe' le vacanze non può' partì se prima non trovi il tipo che ti rifornisce perché se poi in che posto no la trovi come fai? Se.. che ne so devi.. ti viene la voglia di andà a ballà, a parte che poi tanto dopo non c'hai nemmeno propio più voglia di falle le cose,però ti viene la voglia di andà in un posto non puoi andà via finché non hai trovato il tipo, 'nsomma cioè è.. è una limitazione notevole da la.. da la libertà insomma..." (XI-'69-F) 
appena cominciai a risentimmi un attimino meglio [dopo aver superato i sintomi dell'astinenza] io.. avevo propio voglia di fa' tutte le cose che non avevo potuto più fa' capito perché ti ritrovi ho detto a vive delle situazioni, poi io so' molto estroversa, mi piace la gente, mi piace.. frequentà luoghi pubblici, tutte cose che non puoi propio fa' capito per cui.. per me è stata propio una liberazione 'nsomma [...] io non ho avuto propio un'esperienza di tossicodipendenza ma usavo l'eroina cioè diciamo.. magari questa differenza perché al momento in cui ne so' uscita per me è stata una liberazione e basta capito non.. io non ho mai avuto desiderio più di rifammi   [...] non era la vita che.. che io volevo..."(X-'66-F) 
 
Vediamo come, in questi stralci di interviste, la dipendenza non assume una valenza tragica ed insuperabile è, più semplicemente, un limite alle possibilità di divertimento. L'insofferenza verso i limiti che la dipendenza comporta -impossibilità di andare in vacanza o a ballare quando se ne ha voglia (in XI-'69-F) o più genericamente di frequentare luoghi pubblici (in X-'66-F)- evidenzia come l'autoalienazione della tossicodipendenza perde quella capacità di fascinazione, che era riuscita a mantenere per tutti gli anni ottanta, veicolando uno stile di vita pur sempre contrapposto al divertimento di massa (la discoteca, le vacanze ecc.). Un ruolo importante, in tal senso, può essere attribuito alle nuove droghe immesse sul mercato, exstasy ed anfetamine in genere, che si oppongono, simbolicamente, al modello di intossicazione autoalienante proprio dell'eroina. Queste droghe veicolano un modello di socialità e di vissuto esperienziale situazionale, non totalizzante (la notte folle in discoteca rimane un episodio a sé nella vita dell'assuntore), ed integrato nella struttura produttiva (significativamente sono le "stragi del sabato sera", sera del dì di festa, l'emblema negativo dell'assunzione di queste sostanze). Non è tanto "la cultura dello sballo" ad essere messa in discussione, quanto i limiti che l'assunzione di eroina comporta sulle stesse modalità in cui lo "sballo" può essere vissuto. Un nuovo atteggiamento verso l'esperienza drogastica si va diffondendo, ad Abbadia come altrove, perdendo le connotazioni ideologiche e stilistiche, che ne hanno caratterizzato la diffusione dell'ultimo ventennio, e rientrando sempre più in una ideologia del divertimento generalizzato e non problematico. La droga non veicola più un implicito "messaggio politico", non è più riferita, anche solo superficialmente, ad un 
'ideologia specifica e coerente. Essa assume sempre più il significato di esperienza ludica, svolta all'interno del gruppo di pari. La trasgressione non è più "ideologicamente connotata" ma, al contrario diventa un atteggiamento generico che si manifesta con differenti modalità. In tal senso mi pare che l'antropologo G. Harrison (1988) abbia ben colto tale aspetto della cultura giovanile, evidenziando come la droga abbia progressivamente assunto un valore ludico, ricreativo, che prescinde sempre più da finalità aggregative e di compartecipazione. Ciò non significa che abbia perso la potenzialità di generare gruppi ed identità, è vero semmai il contrario, ma piuttosto che le modalità attraverso cui ci si identifica in un consumo di gruppo sono sempre più connotate da un generico e solipsistico "invito al loisir". 
 
 
Legenda 
 
Codice dei soggetti intervistati: 
- La numerazione romana indica il soggetto in relazione al primo contatto stabilito (la lettera in esponente segnala che il soggetto è stato intervistato più di una volta ed indica la sequenza delle interviste) 
-la numerazione araba indica l'anno di nascita del soggetto 
- M o F indicano il sesso del soggetto intervistato 
 
Segni convenzionali usati nella trascrizione delle interviste: 
D.- Indica l'intervistatore 
R.- Indica il soggetto intervistato 
.. -  Indica una breve pausa o un interruzione nel parlato 
...-  Indica una pausa prolungata 
   
 
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